La Bontà, una declinazione dell’Amore

Il gruppo sempre di più, sta apprezzando il valore delle parole chiave che ognuno di noi sceglie. Ognuno è portatore di una qualità energetica che si esprime e si manifesta a nome di tutti. Abbiamo deciso di rapportarci tra noi, non solo come persone che portano un nome e che sono identificate con una particolare personalità. Per questo, stiamo sperimentando di vederci anche come qualità animica che abbiamo scelto, cercando così di conoscere e soprattutto sperimentare quella particolare energia qualificata. Questo ci aiuterà a rapportarci come anime in evoluzione che vogliono portare una particolare bandiera a nome di tutti. Non per ultimo saremo, così facendo, portati a guardare negli altri le piccole grandezze, facendo sfuocare sempre di più le grandi piccolezze. 


Con la consapevolezza che ci conduce a comprendere che tutto è AMORE, ci accingiamo a considerarne uno dei suoi molteplici aspetti in manifestazione: La BONTA’.
La bontà, come realtà mi ha sempre accompagnata nell’arco della mia esistenza. Sicuramente una certa predisposizione del bios di nascita ed anche la realtà familiare che ha accompagnato la mia infanzia e fanciullezza. In modo semplice, umile, i miei genitori esprimevano, forse senza nemmeno rendersene conto, la bontà d’animo. Pronti ad aprire la porta a chiunque ed a soccorrere i più svantaggiati.
Potrei dire che un aspetto della bontà non sia un mio merito, ma in parte ereditato ed in parte condizionato, in senso naturale e positivo, dall’ambiente dove sono vissuta. I problemi nascono quando una caratteristica si deve affinare, declinare, esprimere, responsabilizzare. Quindi quello che era un aspetto di ottimismo, il mezzo bicchiere pieno, doveva necessariamente, attraverso tentativi ed errori, trasformarsi in sobrietà. Certamente la vita è una scuola, fatta di tante materie, sicuramente sono ripetente in alcune, ma ci provo sempre.
A seguire una ricerca fatta in parte tempo fa e poi aggiornata che spero possa essere utile per poter comprendere meglio questa qualità propria dell’essere umano.

“Prima regola per chi cerca davvero la conoscenza sacra è coltivare la bontà. Così si attrae il bene, come un magnete”. (Collana Agni Yoga – Sovramundano.3, 581)

“Vorrei vedere la cooperazione non scritta sulla carta e nelle assicurazioni verbali, ma nell’azione. È ben fatto non parlare dell’amore, ma mostrarlo negli atti”. (A.Y. Illuminazione,284)

“Il nuovo operaio ha la visione del cielo. Rifiuta l’odio, rispetta tutte le forme del suo servizio, si dedica alla causa del bene comune. Ecco un seme che germinerà lentamente, ma con tale potenza da spaccare la roccia”.

“Il lavoratore avanza in due sensi: migliora l’opera e sé stesso”.

“Il lavorare è duale. E’ concreto e spirituale, e l’uno rispecchia l’altro”. (Enzio Savoini)

Da Wikipedia: Bontà (ant. bontade, bonità, bonitade, bonitate, e altre var.) s. f. [lat. bonitas -atis, der. di bonus «buono»]. L’essere buono; carattere di chi è d’animo buono e gentile, e particolarmente, di chi, sensibile alla sorte degli altri, cerca di procurare loro tutto il benessere possibile e di evitare tutto ciò che li può fare soffrire oggi.

L’attributo con cui i Greci erano soliti indicare l’uomo ideale era kalòs kai agathòs, che significa bello e buono; quindi, l’aspetto fisico era posto sullo stesso piano di quello morale e l’uno non era completo senza l’altro; questa fu una concezione diffusa in tutto il mondo antico e che trovò in Grecia la sua massima espressione. La forza, la bellezza e l’armonia erano virtù di una persona almeno quanto l’intelligenza e la bontà d’animo, tanto che tutti gli eroi epici, da Omero in poi, vengono presentati come kalòi kai agathòi e in ogni poema sono presenti gare sportive la cui vittoria dà ai protagonisti lo stesso prestigio di una vittoria in una battaglia.

Il Buddhismo inoltre è veramente positivistico, nel senso che guarda alla realtà delle cose, non aggiungendovi alcunché… La bontà quindi, nel buddhismo, non è semplicemente una prassi morale, ma una pratica di buona salute interiore personale. La bontà è la mancanza di avversione, è mitezza e quiete.

La bontà come l’amore è una realtà perseguibile. Da sempre considerata dalla storia, dalle religioni, dalla filosofia e più recentemente dalla scienza psicologica.
La sua interpretazione è sempre stata condizionata dalla cultura del periodo storico a cui apparteneva.
Consapevole quindi dei limiti di chi scrive, si accettano anche i rischi che questa piccola ricerca presenta. Infatti, sono innumerevoli gli scritti sul tema che obbligano a fare delle scelte che prevedono una accurata selezione del patrimonio esistente. L’orientamento, quindi, prenderà in considerazione alcuni aspetti, psico transpersonali e delle neuroscienze, senza dimenticare in sintesi gli altri contributi.
Qui ci si propone di indagare alcuni aspetti che possano soddisfare la ricerca parziale nelle tradizioni senza tralasciare i contributi che le neuroscienze possono apportare. Questo con il proposito di trovare orientamenti che possano considerare il valore dell’unità.
Infatti, come descrive la fisica quantistica tutto conduce all’Uno.

La spiegazione scientifica della bontà
La fisica quantistica è la scienza che rivela la verità profonda di questo mondo di intrecci. Uno dei fondamenti cardine di questa scienza rivoluzionaria è il principio di indeterminazione di Heisenberg secondo il quale non è possibile misurare la locazione e la velocità di una particella poiché il solo fatto che noi la stiamo osservando modifica i dati rilevati. Già da questa constatazione iniziamo a percepire l’atmosfera di una realtà fortemente correlata ma questo intreccio, detto entanglement, è ancora più profondo. L’entanglement avviene tra due particelle derivanti da una scissione iniziale, che anche quando si trovano a distanze impressionanti non solo continuano a scambiarsi informazioni ma arrivano a modificare il proprio stato fisico in perfetta sincronia. La fisica tradizionale continua per la via delle verità oggettive e del rapporto causa-effetto mentre la fisica quantistica ci fa entrare in una visione di una realtà fatta di probabilità e soprattutto di fili invisibili che uniscono ogni essere. La fisica quantistica ci mostra una prospettiva dalla quale noi dobbiamo attingere per sentirci ciò che siamo, un’unica realtà in cui ogni cosa è riconducibile all’Uno. Anche dalla scienza quindi, apprendiamo come l’amore trascenda lo spazio e il tempo poiché tutto è già correlazione, vibrazione, frequenza ed energia.
La percezione, la comprensione profonda supportata dalla conoscenza che tutto è connesso, crea precipitati tra cui la capacità di amare e la bontà.
“Io sono te e tu sei me, parti del sé divino” prende forma, si manifesta nelle molteplici attività e dimensioni umane.
Molti esperti nel campo delle neuroscienze difendono la tendenza innata dell’essere umano alla bontà, sarebbe infatti qualcosa di radicato a livello biologico, esaltato dalla psicologia positiva.
L’altruismo e la generosità sono custoditi nel nostro DNA o sono atteggiamenti che impariamo col tempo? La percezione della differenza tra bene e male è frutto dell’evoluzione e dei valori a cui ispiriamo la nostra vita o è innata nell’uomo? Ecco cosa dicono gli ultimi studi e le più recenti ricerche antropologiche.
La bontà, il senso di altruismo, la generosità vengono rivalutati soprattutto in certi periodi dell’anno, come a Natale. Ma questi sentimenti sono innati nell’uomo o vengono insegnati con la crescita? Sono sempre esistiti o sono tipici di alcune società e non di altre? Cosa ne dice la scienza? Se un tempo si pensava che fossero legati all’evoluzione morale dell’umanità oggi le ipotesi prevalenti sostengono che essi sono sempre stati presenti nell’uomo e anche nelle specie vicino a noi. Anzi, sembra sempre più certo che tali “valori” non siano stati “scoperti” da società avanzate tecnologicamente, ma che, al contrario, siano stati proprio questi valori innati a spingere l’uomo ad evolversi. Il desiderio di padroneggiare il fuoco fino al voler fare scorta di cibo per il futuro è nato non solo dalla volontà di sopravvivere, ma anche di proteggere le persone più deboli. Gli esempi di “bontà” verso persone inabili di avi lontanissimi da noi sono molteplici.
La più recente scoperta riguarda la vita dei Neanderthal, la specie di Homo più vicina al Sapiens scomparsa, forse, proprio a causa di quest’ultimo. In una tomba scoperta a La Chapelle-aux-Saints in Francia nel 1908 vennero ritrovate delle ossa di tale specie. Recentemente il loro studio ha messo in luce che appartenevano ad un uomo anziano che non aveva denti ed era totalmente debilitato per problemi di artrite. Nonostante la grave condizione in cui si trovava sopravvisse comunque per diversi anni e questo poté avvenire solo e soltanto grazie alla sua famiglia i cui componenti si presero cura di lui fino a pre masticargli il cibo. Un altro caso è quello di un Neanderthal che si ritrovò con numerose ossa fratturate e un arto amputato, ma che nonostante questo sopravvisse per diversi anni (lo si è capito dallo studio delle ossa attorno alle cicatrici) e ciò, senza dubbio, fu possibile grazie alla “bontà” di parenti e amici che si presero cura di lui.
Vari lavori, frutto dei lunghi studi dell’antropologo Donald Brown, dell’Università della California, hanno portato a sostenere che alcune disposizioni d’animo, proprio legate alla bontà, alla generosità, all’empatia, o al dovere di riconoscere i diritti delle persone che ci stanno vicino siano da sempre riconosciute dalla nostra coscienza come cose “buone”. Così come l’idea che lo stupro, l’omicidio, siano sinonimo di “male”. E questo indipendentemente dal fatto che la coscienza dei singoli si nutra o meno di ideali religiosi. Brown dice che i sentimenti positivi dell’uomo hanno portato alla sua dimensione sociale, ossia al vivere comunitario, che non è semplicemente un’organizzazione per la sopravvivenza tipica di una mandria di animali o insieme di insetti come le formiche o le api, ma va ben oltre e vede il bene degli altri come una meta importante da raggiungere.
Lo psicologo Steven Pinker dell’Università di Harvard sostiene che i principi morali sono pre-programmati nel nostro cervello fin dalla nascita e abbiano basi neurobiologiche. E la stessa idea è sostenuta da Richard Dawkins, biologo ed etologo dell’Università di Oxford, noto anche come divulgatore scientifico, il quale sostiene che alcuni principi morali sono universali, vanno al di là di ogni cultura e religione.
Ma al di là delle “prove” storiche o statistiche si è anche cercato di verificare se esistano prove scientifiche in grado di dimostrare che il senso di “bontà” è scritto nel DNA delle persone. Un esperimento a favore di questa ipotesi è quello realizzato da Gregory Berns, della Emory University di Atlanta. Utilizzando una tecnologia che permette di osservare il comportamento del cervello quando sottoposto ad emozioni di vario tipo – una tecnica chiamata “imaging cerebrale” – ha messo in evidenza che allorché le persone si comportano in modo altruistico il cervello si “accende”, ossia aumenta il flusso di sangue in quelle aree che si attivano quando una persona osserva qualcosa di piacevole, come un bel paesaggio, un cibo desiderato o altri elementi gradevoli.
A queste conclusioni i ricercatori sono giunti attraverso l’analisi di risposte di vari quesiti posti ad un gran numero di persone di ogni età, religione e sesso su concetti di rapporti interpersonali tra singoli e singoli, e tra singoli e comunità. Le risposte sono state estremamente simili tra loro al di là della fede religiosa, del grado di cultura, dello stato economico o di qualunque altro aspetto sociale.

Tradizioni spirituali
 Se le ricerche scientifiche apportano il loro notevole contributo alla comprensione dell’unità e dell’amore con tutto ciò che ne consegue, anche le tradizioni spirituali non sono da meno.
Negli scritti del cristianesimo ortodosso ci viene detto che: “L’essenza di ciò che noi siamo è data dall’amore”.
Essere amore in ogni istante della vita significa amare gli altri. Ma qual è l’equilibrio tra amare gli altri e noi stessi? “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Matteo 22,37) è una delle traduzioni del Vangelo distorte nel passato. Dall’aramaico “de-alekhsani, le-ahabrekl la ta’ àvid” ha un altro significato: “ama il prossimo tuo come devi amare te stesso”. Questo è il nostro scopo cioè amare noi stessi significa conoscersi e poi decidere la nostra direzione. Tutte le religioni ci hanno dato un concetto di base: “Noi siamo tutti nell’Uno. Noi siamo un unico essere in Dio” come dice San Paolo. La nostra vita riguarda l’esistenza di tutti gli altri che sono uno con noi stessi. Il “conosci te stesso” di delfica memoria, ci indica il passaggio conseguente: conoscerci realmente scoprendone la divina natura dopo aver attraversato i marosi delle nostre ombre, ci permette di conoscere tutto e tutti. Conoscere veramente significa amare. Tutti noi siamo compagni in un viaggio e questo non è il viaggio che pensiamo che sia: non è un viaggio dalla nascita alla morte. È un viaggio da molto tempo prima della nascita a molto tempo dopo la morte. Un viaggio che non finisce, noi siamo compagni di questo cammino eterno, un viaggio dell’anima. (“Che il tuo sguardo illumini l’universo”, di padre Massimo da Qumram).
Quindi conoscere sé stessi ci indica la strada per essere ed esprimere l’amore. Può dare amore solo colui che si è elevato al di sopra del bisogno di essere amato perché l’amore è una condivisione non un chiedere. Enzo Savoini lo chiamerebbe: ” Partizione dell Unità” L’amore che viene chiesto non può essere amore, questa è una delle leggi essenziali ed eterne della vita. Solo un cuore pronto a condividere, a dare, possiede l’attitudine che permette all’amore di presentarsi alla sua porta. L’amore per fortuna è infinito come lo spazio. Noi come spesso ricordiamo, siamo fatti di cielo e quindi siamo aspetti dell’amore. Nel percorso della vita, ora che l’anima anela sempre di più all’essenziale, ci sembra utile canalizzare la nostra attenzione ai ricchi attributi che l’amore contiene.
La scelta di osservare l’aspetto BONTA’ è conseguente alla consapevolezza che questa “virtù” può essere considerata uno dei pilastri fondamentali per conoscere ed esprimere l’amore.
La bontà, è fatta di piccoli gesti, è una virtù dell’essere. È una dote rara, speciale, tipica di quelle anime pure, limpide, genuine, che ti entrano nel cuore e vi rimangono. La bontà è più semplice da riconoscere che da esprimere con le parole, perché è fatta di piccoli gesti, di piccole attenzioni, ma che valgono tantissimo: un sorriso sincero, una parola buona, una lacrima “condivisa”, balsamo e conforto per chi ha bisogno di aiuto. Un aiuto che solo i buoni “veri” dentro, e non quelli artefatti, possono dare, con la loro presenza, la loro semplicità, la loro grandezza interiore.
La bontà è una catena d’oro che ci unisce tutti.
Dicono che la bontà sia l’unico investimento che va sempre a buon fine. In altre parole, l’atto di seminare buone azioni diventa un beneficio universale, perché facciamo fiorire i cuori che tocchiamo con il nostro comportamento.
In altre parole, la bontà è quell’aspetto dell’esperienza umana che enfatizza il beneficio reciproco, è il fedele riflesso di un cuore educato ed emotivamente intelligente che tutti desideriamo avere.
Le nostre azioni sono il riflesso della nostra anima, rappresentano il nostro sguardo nei confronti del mondo. La semplicità, la bontà, la fede e l’allegria sono magnifiche pietre per costruire la casa della vita.
Si dice che il miglior omaggio da fare alle persone buone sia imitarle.
“Prendi un sorriso, regalalo a chi non l’ha mai avuto. Prendi un raggio di sole, fallo volare là dove regna la notte. Scopri una sorgente, fa bagnare chi vive nel fango. Prendi una lacrima, passala sul volto di chi non ha mai pianto. Prendi il coraggio, mettilo nell’animo di chi non sa lottare. Scopri la vita, raccontala a chi non sa capirla. Prendi la speranza e vivi nella sua luce. Prendi la bontà e donala a chi non sa donare. Scopri l’amore e fallo conoscere al mondo”. (Mahatma Gandhi)

Uomo buono
L’uomo buono non ha nulla di molle, di troppo cedevole, di sempliciotto; a nessuno viene in mente di sfruttarlo o di approfittarsene: incute rispetto senza peraltro intimidirci, anzi accogliendoci con naturalezza nell’intimità della sua vita spirituale. Sentiamo, in qualche modo, che la sua bontà è fatta di forza e non di debolezza, che, all’occorrenza, sa anche dire no, ma senza ferire nessuno e mai per egoismo personale; avvertiamo che le sue azioni scaturiscono da una sorgente chiara e fresca di vita interiore, che gli permette di essere sempre fedele a sé stesso, fin nelle circostanze più delicate e difficili. Vorremmo, eccome, possedere almeno una parte della sua fiducia, del suo ottimismo, della sua serenità, della sua apertura; ci rendiamo conto che egli sta bene con se stesso – ma senza orgoglio – per aver vissuto in prima persona il grande segreto che è più dolce dare che ricevere, e che solo chi è disposto a rinunciare a tutto il suo egoismo può veramente ritrovare se stesso. Meravigliati, conquistati, davanti a lui ci domandiamo da dove gli vengano quelle risorse di equilibrio, di benevolenza, di magnanimità che lo rendono così diverso dagli altri, che ce lo fanno riconoscere come unico in mezzo a una folla. E intuiamo che la sua origine risiede in una totale disponibilità ad accogliere la chiamata, a mettersi a disposizione della sua voce interiore.
L’amore si declina in molti aspetti che lo qualificano: Benevolenza, gentilezza, empatia, indulgenza, mitezza, generosità, misericordia, dolcezza, tolleranza, pazienza, magnanimità, serenità ed altri.
Diceva Raimon Panikkar, nel corso di una conversazione, che il segreto della serenità è la capacità di lasciarsi andare, di non fare resistenza, di non aggrapparsi convulsamente alle cose. Ma lasciarsi andare a che cosa e verso che cosa? Lasciarsi andare al Tutto, alla legge cosmica che regola e armonizza i rapporti fra tutti gli enti; arrendersi alla forza dell’Amore. Verso che cosa? Non sta a noi domandarlo. Il grande fiume dell’Amore scorre con la forza della necessità, a noi è chiesto solamente di lasciarci portare dalla sua corrente, senza resistere, senza attaccarci insensatamente al nostro piccolo ego; senza lottare per cercar di affermare una piccola felicità egoistica, conquistata a spese di altri io e conservata con sofferenza ed invidia di coloro che abbiamo spinto nell’angolo a forza di gomiti.
L’uomo buono non è semplicemente un uomo che ha raggiunto l’equilibrio interiore. Esistono svariate tecniche per il raggiungimento dell’equilibrio psico-fisico, alcune di origine orientale come lo Yoga, sono antichissime. Il buddhismo ci insegna a liberarci dalle tre emozioni distruttive, dai tre grandi veleni della mente: la rabbia, il desiderio e l’illusione. Anche la teoria dei tre guna, nell’induismo ortodosso, ci insegna a spezzare le catene del falso ego e a distaccarci tanto dall’ignoranza (tamas) che dalle passioni (rajas) per raggiungere l’equanimità e la pace perfetta. Persino la virtù (sattva) rischia di intrappolare la coscienza nel recinto dell’azione condizionata e dei pensieri condizionati. È scritto nella Bhagavad-Gita (14, 9): “O discendente di Bharata [così parla il dio Krishna al nobile Arjuna], la virtù condiziona l’uomo alla felicità, la passione lo condiziona ai frutti dell’azione, e l’ignoranza, coprendo la conoscenza, lo vincola alla pazzia”.
Le persone virtuose non necessariamente sono persone buone. Si può essere virtuosi senza possedere quel calore umano, quella naturale benevolenza, quella generosità e quella disponibilità che ci mettono a nostro agio, che ci inducono ad aprirci con fiducia verso coloro che li hanno.
Infine, vi è una categoria veramente rara di persone, le persone buone e totalmente prive di attaccamento. La loro bontà nasce appunto dal fatto che non possiedono – o per vocazione innata, o per una faticosa conquista – alcuna forma di avidità verso l’esistenza nel senso che si lasciano portare dalla forza armoniosa dell’ordine cosmico, che è Amore. Come il saggio taoista, non sono turbate dal sacro zelo di correggere le cose storte, non si ritengono strumenti dell’altrui salvezza e non ritengono di essere indispensabili. Sagge, aspettano che il flusso della vita dia loro modo di intervenire, con estrema delicatezza, quando se ne presenta loro l’occasione: ma senza rincorrerle in maniera esasperata.
Una conclusione consolante di quanto abbiamo fin qui detto è che la bontà si può conquistate passo passo, e conquistarla, con una pratica quotidiana che parta dalle piccole cose e vi si applichi con costanza e con lealtà. Alcuni rari fortunati ricevono, fin dalla nascita, una vocazione alla bontà (nel senso della psicologia di James Hillmann, secondo il quale noi siamo chiamati alla vita da una forza che ci spinge verso quel particolare destino), di solito favorita dall’ambiente familiare o da qualche altra circostanza ereditaria o ambientale. Gli altri, invece, vi pervengono con pazienza e con tenacia, cercando la forza di rialzarsi dopo essere caduti, mantenendo alto il valore dell’obbiettivo da perseguire.
Ora, per essere persone consapevoli della propria dignità e della propria natura spirituale bisogna disintossicarsi dai veleni di una società impazzita che ha capovolto ogni sana prospettiva morale e reimparare a guardare in alto.   Occorre che l’uomo riconquisti la forza di voler divenire qualche cosa di più alto del suo piccolo ego, del suo ego infantile e viziato che dice sempre: me, me, me. Occorre che ricominci a dire “noi”.
A quel punto si accorgerà di avere a disposizione un palazzo bellissimo e pieno di sole, e si stancherà di rimanersene acquattato nella buia cantina. Si accorgerà di avere a disposizione un paio di ali per volare, e gli verrà il desiderio di spiccare il volo. Si staccherà dalla terra, con profonda gratitudine per tutto quello che da essa ha ricevuto, per poi lanciarsi in volo. Come il nidiaceo che, divenuto capace di lanciarsi nell’aria, si stacca dal suo comodo rifugio fra i rami dell’albero per affrontare la grande avventura nell’azzurro infinito del cielo: perché quella è la sua natura.
La natura dell’uomo è di prepararsi alla grande avventura. Perché liberi orizzonti lo attendono e lo chiamano, fin da prima che egli venisse al mondo.
“Non conosco altro segno di superiorità per l’uomo se non la bontà”. Beethoven
“Bontà: qualità di chi desidera e cerca di procurare il bene altrui. E’ una qualità divina ma perfettamente accessibile all’uomo che, anzi, dovrebbe prenderla a base della propria esistenza e, come dice il Maestro: “Prendila a base della tua casa, e su essa costruisci il tuo focolare, e vedrai che la fiamma arderà senza bruciare” (Collana Agni Yoga – Aum, 584).
Poiché la bontà è una qualità che viene dal Cielo e non è frutto degli sforzi umani, essa è un dono da invocare, disponendoci ad accoglierlo nel cuore e “nelle mani” con umiltà e gratitudine. L’atmosfera in cui meglio si esprime la bontà, è la gioia del cuore. La gioia come acqua di vita fluisce liberamente nei cuori umani ed è la sorgente della bontà. Per compiere atti di bontà è necessario aprire il proprio cuore alla gioia. La gioia del cuore è vita per l’uomo e dunque egli esprime vitalità attraverso le opere buone. Si potrebbe dire che non c’è bontà senza gioia e non c’è gioia senza bontà. “La bontà vola verso la gioia” (Collana Agni Yoga – Appello, 300).
«Non vantatevi delle vostre virtù, né invidiate le capacità degli altri. Esaminate piuttosto le vostre azioni, senza attaccarvi agli errori degli altri. Così facendo non incontrerete ostacoli, in nessun momento e in nessun luogo, e godrete in maniera naturale della felicità. La “Via” della tolleranza è la migliore delle vie; ma prima di poterla raggiungere dovrete abbandonare ciò che chiamate “Io” e ciò che chiamate “l’Altro”». (Dazhu Huihai, VIII secolo)

Psicogabri

Parole concordanti: Generosità, benevolenza, magnanimità, tolleranza, inclusività, saggezza, equanimità, fratellanza, sorellanza,

 

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